“LE SVERGOGNATE”. Un triste spaccato della società siciliana del secolo scorso.

«Cara Lieta, questo tuo libro sul costume delle donne siciliane, sul mito d’ onore, sul comportamento degli uomini siciliani nei fatti d’ amore, e sui pregiudizi atroci che li condizionano, mi pare interessantissimo. Sono convinto che avrà un grande successo perché l’argomento è trattato con grande estro e la lettura è oltremodo piacevole, avvincente come un romanzo».

A scrivere queste parole è Federico Fellini, il quale, trovandosi tra le mani il libro di Lieta Harrison, “Le svergognate” (Edizioni di Novissima, 168 pagine), quasi sessant’anni fa, rimane subito colpito per la stesura, l’approccio al tema, e soprattutto per il ritratto spregiudicato della donna siciliana che ne viene fuori. 

Negli anni Sessanta, l’Italia era spaccata in due, una netta divisione tra Nord e Sud, non soltanto in ambito socioeconomico, ma ancor di più all’interno delle famiglie. Le abitudini e le condizioni familiari affondano le loro radici nella società patriarcale che ha imposto una mentalità permeata di tabù con una morale restrittiva e fortemente unilaterale, rivolta esclusivamente alle donne.

In questo scenario Lieta Harrison scrive nel 1963 un libro-documentario composto da ventidue capitoli e intitolato “Le Svergognate”.  Il libro è una raccolta di testimonianze dirette, alcune aberranti, provenienti da ogni ceto sociale e da ogni genere. Le protagoniste di questa inchiesta sono quelle ragazze che, per il loro comportamento, suscitano l’indignazione secondo l’opinione popolare.

Un libro che si fregia della Prefazione di Pier Paolo Pasolini, il quale lo ha definito “cahier di oggettiva doléance”, ma nonostante questo all’epoca della pubblicazione non riscosse un grande successo. Gli anni non erano ancora maturi per sentire parlare di condizione femminile e il patriarcato aveva tutto l’interesse a non diffondere idee che avrebbero potuto risvegliare nelle donne comportamenti che la società avrebbe condannato.  

Le protagoniste di questa inchiesta sono quelle

 “ragazze che con il loro comportamento incorrono nel giudizio negativo della società siciliana”.

Ciò che ammorba la società siciliana dell’epoca è “l’onore femminile”, considerato un valore portante e che si estrinseca nella verginità della donna, la quale è esposta alla gogna sociale. È una mentalità che si basa sul pregiudizio della inferiorità della donna e della sua necessità di vivere in uno stato di subordinazione. In questo contesto la donna è vittima in quanto subisce il sistema patriarcale, ma allo stesso tempo sostenitrice e dunque complice del valore in quanto lo accetta come se fosse un principio naturale. Vengono perciò condannate, e talvolta isolate, dagli uomini e dalle donne della famiglia, coloro che non rispettano questo principio cardine, anche nel caso in cui il rapporto sessuale sia frutto di una violenza. Una ragazza non vergine prima del matrimonio è una donna che ha perso il suo onore e per questo rappresenta un pericolo per l’intera struttura sociale e morale siciliana. Alla donna non è permesso lavorare o avere un’occupazione sociale che non sia legata alla procreazione, alla crescita dei figli e alla cura della casa. L’unico modo in cui una donna si può realizzare è quello di sposarsi e dare origine ad un nuovo nucleo familiare, a patto che sia vergine. Verginità di cui si fa garante tutta la famiglia.

“La società siciliana, infatti, non consente alla donna altro status che quello familiare: l’unico obiettivo della ragazza deve essere il matrimonio. Soltanto l’indigenza, o una precisa necessità, spingono la donna a lavorare fuori casa, perché ogni aspirazione all’autonomia o all’indipendenza è vista come un pericolo per le strutture sociali: la donna che lavora è già sulla via del disonore.”

Lieta Harrison si pone come obiettivo quello di trovare quali siano le cause del disonore in cui una donna può incorrere e mostrare le reazioni dell’opinione popolare davanti alla violazione delle norme sessuali tradizionali. L’autrice analizza il fenomeno intervistando ragazze-madri, donne vittime di violenza sessuale e fautori del cosiddetto “delitto d’onore”. Conduce la sua inchiesta principalmente nella provincia di Palermo e intervista 646 persone tar uomini sposati, donne sposate, celibi e ragazze. Si confronta inoltre con giudici e avvocati penalisti, con istituti di rieducazione, con membri di enti assistenziali e sacerdoti. Dal materiale raccolto emerge che l’opinione pubblica è fortemente ancorata a determinati pregiudizi, legata a un conformismo restrittivo e a una omologazione sociale e morale che non ammette possibilità di rivoluzioni e cambiamenti. 

L’onorabilità stessa della donna viene decretata dall’opinione pubblica attraverso regole sociali. Il rapporto di parentela con una figlia disonorata è considerato disonore: in questo caso, infatti, il capofamiglia è venuto meno a un suo dovere, quello di vigilare sulla figlia per garantirne la verginità.  Quando una donna siciliana perde la verginità fuori del matrimonio diventa  “svergognata”, disonorata. Viene bandita dalla società e perfino dal contesto familiare. Ha soltanto due modi per essere reinserita all’interno dell’ambito sociale: o sposa il suo seduttore o lo uccide in quanto colpevole di non aver mantenuto il suo impegno nel sposarla. Nel caso in cui una donna sia stata violentata, ingannata o abbandonata, l’unico modo che ha per dimostrare la propria innocenza è compiere il cosiddetto “delitto d’onore”, spesso aiutata e appoggiata da genitori e parenti. Il delitto d’onore è commesso per soddisfare la comunità e quasi mai per vendetta; con questo gesto la donna riacquista la stima e il rispetto da parte dell’opinione popolare. Le protagoniste dei delitti d’onore sanno che la legge le punirebbe, ma moralmente si sentono giustificate. La società dell’epoca preferisce una donna assassina a una ragazza-madre.

Da allora sono cambiate tante cose e le svergognate del tempo oggi possono camminare a testa alta, anche nei paesi più resistenti al cambiamento dei costumi. 

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